[Ovvero: Eliver al concerto di S. Siro – Milano, 28 Giugno 2003]
Diciotto anni. È un’attesa lunghissima, infinita.
Ho aspettato diciotto anni per poter vedere il Boss, Bruce Springsteen, dal vivo. Per sentirlo suonare quelle canzoni che sono stata la colonna sonora della mia adolescenza.
1985, l’anno magico. Quattordici anni e non poterci essere, lì, a San Siro, a partecipare al grande e magico rito del Rock. E lui era bello, grintoso, travolgente: cantava la sua America, un’America che tutti potevamo ancora amare. La bandiera a stelle e strisce, i jeans sdruciti e la maglietta bianca, un sorriso di sfida al mondo.
Io non c’ero. Non c’ero, nel momento in cui la forza dei miei sogni mi avrebbe permesso di volare, di piangere sulle note di I’m on fire, di ballare in modo sfrenato sotto il palco insieme alle migliaia di altri fan. Non c’ero e mi è rimasto il rimpianto dentro, un languore che non si è mai spento, che mi chiedeva di poter ascoltare Bruce almeno una volta, prima o poi.
Ma negli anni il sogno è sbiadito, la maglietta con la bandiera a stelle e strisce, dopo troppi lavaggi con la varechina, si è stinta ed è rimasta chiusa in un cassetto umido, dimenticata. La vita si è messa a correre e io ho corso con lei: cinque anni, l’università, dieci anni, il lavoro, quindici anni, il matrimonio e finalmente Milano.
2003, l’anno del tour di The Rising. Il mondo è cambiato, nel frattempo: sono cadute le Torri e l’America è diventata un vicino sospetto e un po’ losco, che si aggira nel quartiere sempre con il fucile in mano, imbavagliando chi non è d’accordo. Anche io sono cambiata: ora so chi sono, ma che fine hanno fatto i miei sogni? Ho comprato quel biglietto il primo giorno di vendita, facendo la fila alla FNAC durante la pausa pranzo dal lavoro. Non era certo che ci sarebbero stati, ma io non ero disposta ad andare via senza il mio tagliando colorato. E alla fine l’ho ottenuto, l’ho guardato con il cuore in gola: Bruce Springsteen & the E-street Band, Stadio S. Siro, 28 Giugno 2003. Perfetto… Mancano solo sei mesi.
Come vola il tempo. Sei mesi sono volati via in un attimo, tra le feste e il lavoro. Ogni tanto il pensiero correva a quel tagliando colorato dentro la scatola delle cose preziose, quelle da conservare gelosamente. Niente gioielli: solo tre biglietti per il concerto di S. Siro. Tre biglietti per vedere il Boss, a Giugno. Tra cinque mesi, quattro, tre, due, tra un mese. Per vedere il Boss, stasera. Stasera. Le undici. Stasera. Le dodici. Arriva Flavia da Torino: lei ha visto tutte le tappe italiane, da Firenze mi ha portato la maglietta del Tour. Bellissima, la indosserò… stasera.
L’una. Pranziamo dal giapponese, parliamo di politica, di come va male l’Italia, di come è piccola l’America della piccola gente di provincia. La gente cantata da Bruce. Quella che canterà, ancora una volta, stasera. Le tre. Compriamo i panini per stasera. Come per un picnic, però allo stadio. Le quattro. Vorrei riposare ma non ci riesco: giro per casa come se avessi l’argento vivo addosso, cercando qualcosa da fare. Qualcosa che non mi faccia pensare che mancano solo poche ore. Le cinque. Guardo il cielo: c’è il sole, un bel sole tra qualche nuvoletta estiva. A sunny day, non troppo caldo. E’ ora di vestirsi: pantaloni rossi di lino, canotta rossa. E la maglietta del Tour? Anche quella, ma in mano perchè fa troppo caldo. Magari, stasera… Stasera.
STASERA! Sono passati diciotto anni e l’attesa si è finalmente conclusa.
Le cinque e mezzo: time to go. Linea gialla mezza vuota, curioso. Linea rossa come un giorno di lavoro: strano. Dove sono tutti quanti? Tra la gente scorgo magliette del Boss, cappellini, zainetti, sorrisi: parlano di stasera. Vanno anche loro a S. Siro, si vede lontano un miglio.
Arriviamo a Lotto: ci doveva essere una navetta, ma il tempo è bello, il viale è alberato e i pochi autobus che passano sono pieni come sardine. Meglio camminare, unirsi al fiume di persone che scorre lentamente verso lo stadio. Dieci minuti, ascoltando Flavia che ci racconta di Firenze, di Casalecchio, dei tanti concerti a cui ha assistito. Beata lei. Ci racconta l’esaltazione che prova ogni volta, sempre uguale, sempre nuova. Il Boss è una specie di malattia: la sua musica ti scorre nel sangue. E il mio, di sangue, corre per l’eccitazione, l’agitazione, il senso di pregustazione.
Ci siamo, quasi.
Ecco San Siro. E’ enorme. Un vero tempio dello spettacolo, un Colosseo dell’Era Digitale: sulle scale spiraliformi già la gente risale verso il terzo anello. I cancelli sono già aperti. Il piazzale è invaso dai segni del bivacco notturno e diurno: coraggiosi che volevano aggiudicarsi la fossa devono aver lottato all’ultimo sangue. Per terra restano cartacce, bottiglie, lattine, sudore e lacrime, per conquistarsi quei due metri di spazio privilegiato davanti a Bruce. Già me li immagino, stanchi e sudati ma pronti e carichi per ballare e cantare sotto il palco.
Anche noi facciamo la nostra faticosa risalita, diretti verso il secondo anello, proprio sopra le tribune numerate. Prima sorpresa: la tribuna del secondo anello è strapiena, come sono strapiene le curve adiacenti. Camminiamo in mezzo alla gente che cerca un posto come noi, scavalcando gambe, piedi e zainetti. Camminiamo ancora, usciamo dalla tribuna, sconfiniamo nella curva destra. Ecco, qualche posto. Ma una signora ne sta tenendo altri due: cinque meno tre fa due. E noi siamo in tre. Rapidamente Flavia si guarda intorno e individua un posto libero per sè qualche fila più in alto. Ce l’abbiamo fatta! Siamo in prima fila, in curva sul secondo anello, praticamente sui bordi della tribuna. C’e’ una piccola ringhiera, ma non dà fastidio. E il palco è di fronte a noi, fiancheggiato da due enormi maxischermi neri. Sono le sei e mezzo. Ci siamo, quasi.
Sotto di noi, il prato coperto dai tavolacci bianchi è invaso dalla gente: un popolo colorato in attesa, fitto sul davanti verso il palco, più rado verso il fondo. Li guardo con un po’ di invidia: sembrano divertirsi un sacco. Potrei farlo anche io, mi dico. Ma poi faccio quattro conti interrogando il mio fisico di trentenne, sento le gambe molli e il familiare dolorino alle reni. Non è giornata: di tutti i giorni del mese, proprio oggi. Sei mesi di attesa e proprio oggi. Diciotto anni di attesa e proprio oggi. Cazzo, è surreale, è da Guinness dei Primati. Morale: non ce la posso fare, il prato non me lo posso permettere. E vabbè, almeno ho un buon posto sulle tribune, nessuno che rompe e se dovesse piovere sono pure al coperto. Ecco.
Quattro chiacchiere e sono le sette, un panino e sono le otto meno un quarto. Manca poco, il cielo diventa grigio. La folla scandisce il suo nome: “Bruce, Bruce”, e quel coro di RUS, RUS, RUS che esce come un mantra propiziatorio da sessantamila gole fa vibrare l’aria e tutta la struttura sotto di noi.
E poi sono le otto e un quarto, si accendono le luci, parte la musica di sottofondo: entra la band, tra gli applausi e le grida, che si trasformano in delirio puro quando Bruce sale sul palco con la sua chitarra. Lo stadio trema. Il Boss è qui. Lo show comincia.
Le note di The Promised Land aprono la serata, accolte da una ovazione. Poi Bruce, in italiano, chiede un po’ di silenzio e attacca con le canzoni di The Rising, quelle dedicate alle vittime dell’undici settembre. Canta e le sue parole toccano il cuore: tutto lo stadio lo segue, cantando sommessamente Lonesome Day e poi seguendo la melodia malinconica di Empty Sky.
Cantiamo anche noi, io ogni parola, Silvio i ritornelli. Anche lui, fan di riflesso, è stato conquistato. Tutto lo stadio, le tribune, le curve, il prato all’improvviso si trasformano in un tappeto di lucine bianche: hanno tutti la loro minipila, stasera. Non e’ ancora buio e quelle sessantamila lucciole danzano creando un effetto magico e spettacolare. Mi guardo intorno, trattenendo il fiato per un attimo. Ma poi riprendo a cantare a squarciagola, con gli occhi fissi sul palco.
Ma come è lontano, il Boss. So che è lì, quell’omino vestito di nero al centro del palco, che si stringe alla chitarra. Ma non lo vedo. Non distinguo il suo viso, non lo riconosco. Lo stadio è così grande, le distanze sono infinite. Lo sento, ma non lo vedo. Il maxischermo ci mostra i dettagli del suo viso non più giovane, l’espressione sofferta, gli amplificatori inondano l’aria della sua voce potente. Ma sembra di guardare una TV gigante. Fredda. Distante.
Se non fosse per l’aria, che si sta facendo gelida, e per il cielo grigio piombo sopra le nostre teste, potrei chiudere gli occhi e credere di essere a casa, su una sedia un po’ scomoda, a guardare MTV. Solo il pubblico, la gente intorno a noi, mi fa sentire parte dell’evento, di quella serata che certamente diventerà storica quanto la prima. Se la ricorda bene, quella prima volta in Italia, Bruce. Saluta il pubblico, in un buffo italiano, raccontando del mille-novecento-ottantacinque e di quei pazzi italiani che l’avevano accolto gridando BRU-CE, BRU-CE. Dice proprio BRU-CE e non “Brus”. Il pubblico non se lo fa ripetere e il mantra riprente, con un ritmo quasi tribale. Il cielo è sempre più nero. Meno male che ho portato la maglietta pesante: la infilo quando già cominciano a cadere le prime gocce di pioggia.
Capisco che il temporale è iniziato quando all’improvviso la gente sul prato comincia ad arretrare, assiepandosi sui bordi del campo, vicino alla copertura.
Qualche minuto, una The River cantata tutti in coro, sull’onda del sentimento e del ricordo di allora, e poi viene giù il finimondo.
Dal pubblico qualcuno tira a Bruce un cappello bianco da cowboy: lui lo afferra e attacca Waiting on a sunny day, indicando provocatoriamente il cielo, sfidando gli elementi a fiaccare l’entusiasmo di questa serata magica. Il cielo tuona. Inizia il diluvio e il Boss, con il suo cappello esce sulla pedana e dopo due secondi è zuppo come tutti i suoi fan. L’acqua schizza ovunque, lui corre da una parte all’altra del palco: il maxischermo rimanda la sua immagine avvolta dalla pioggia. L’acqua rifrange le luci, ammantandolo di un alone colorato quasi mistico.
Non c’è copertura sufficiente, contro il diluvio universale. Il vento ci fa praticamente la doccia, innaffiandoci prima da davanti e poi da dietro. Tre minuti e anche noi siamo grondanti come gli altri: capelli fradici, maglietta fradicia, freddo. Ma lo show deve continuare: Bruce prende in giro la pioggia, con Who’ll Stop the Rain, e sul prato iniziano a fiorire gli impermeabili turchini, gialli e rosa. Come un prato vero, un prato di fiori, tante braccia ondeggianti tese verso il cielo come steli sottili agitati da vento e dalla pioggia. E’ bellissimo.
Per un attimo la pioggia diventa così intensa che quasi non si riesce più a vedere il palco, e dentro di me comincio a temere che decidano di interrompere il concerto. Ma per fortuna è solo un attimo: la pioggia contiuna a cadere, Bruce continua a cantare. Canta la sua storia, la sua vita e la nostra, come siamo cambiati in questi ultimi diciotto anni, canta il giorno buio del sogno americano, Into the Fire, ma esorta ad andare avanti, a non perdere la speranza sulle note di Follow that Dream. Il cielo è pieno di luci, stanotte. I lampi si accendono al ritmo di Thunder Road, come l’impianto di effetti speciali più grande e più costoso del mondo. C’è un tempo di merda e il mondo fa schifo, ma non ci piegheremo.
Il Boss canta e noi cantiamo con lui, No retreat, baby, no surrender…
Tra un bis e l’altro mi soffermo a guardare ancora una volta la gente sul prato: anche se è fradicia fino al midollo si sta godendo il concerto nel modo più vero, lo sta vivendo con l’anima e il corpo. Mi sento fredda: forse è la maglietta bagnata, forse è perché mi accorgo che io, quel concerto, lo sto solo guardando.
Ho aspettato tanto, l’ho desiderato così fortemente e ora che sono qui, davanti al Boss, a Bruce Springsteen, proprio lui, l’idolo della mia adolescenza mi sento fredda. Perché non mi batte il cuore? Cosa mi succede? Forse è vero: l’ora è fuggita, il sogno è diventato realtà e la realtà non era poi così sensazionale come l’avevamo sognata. Il concerto è bellissimo, ma io non sono più quella dell’85. Vorrei piangere, strapparmi i capelli dalla gioia, saltare e ballare come in preda alla frenesia. Vorrei ma non succede.
Ecco, Dancing in the Dark! Quanti sogni davanti a quello stupido videoclip, falso e idiota. Ma stasera Bruce è lì, sta cantando dal vivo, per me e altri sessantamila spettatori in delirio. Basta, non posso restare indifferente. Almeno questa la devo vivere fino in fondo. Mi alzo a ballare, trattenendo il fiato: le gambe reggono, alla via così, balliamo! Yeah! You can’t start a fire without a spark… e la scintilla è scoccata. Meno male. Dopotutto forse non sono ancora fossile. E poi Rosalita, balliamo ancora, il pavimento che vibra, lo stadio che canta. Poi un breve saluto: ritornerò. E improvvisamente come era iniziato, tutto finisce, anche il temporale. Ti aspettiamo, Bruce. Non farci aspettare altri diciotto anni! Sei stato grande: grazie di tutto, grazie per un concerto memorabile.
La scaletta di San Siro 2003
1. The Promised Land
2. The Rising
3. Lonesome Day
4. My Love Will Not Let You Down
5. Darkness on the Edge of Town
6. Empty Sky
7. The River
8. Waitin’ on a Sunny Day
9. Who’ll Stop the Rain
10. Growin’ Up
11. Worlds Apart
12. Badlands
13. Out in the Street
14. Mary’s Place
15. Follow That Dream
16. Thunder Road
17. Into the Fire
18. No Surrender
Primo bis:
19. Bobby Jean
20. Ramrod
21. Born to Run
Secondo Bis:
22. My City of Ruins
23. Land of Hope and Dreams
24. Dancing in the Dark
25. Rosalita
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