Un racconto di Elisabetta Vernier
Io ricordo.
Immagini scolorite di vite passate che saranno sempre parte di me, una parte nascosta che pesa sul mio cuore più di una montagna. Non sono come tutti gli altri: la gente comune dimentica. Muovendosi attraverso gli anni, dimentica il passato remoto; muovendosi attraverso le vite le ricorda una alla volta, come se l’ultima fosse anche l’unica. Io no: io ricordo tutto. Ricordo ogni singolo attimo dal momento in cui sono venuto al mondo, il giorno in cui la mia essenza vitale ha assunto una forma materiale per la prima volta.
I ricordi si affollano nella mia mente in modo così caotico che ci sono stati dei giorni in cui sentivo che il cervello mi stava per scoppiare: così, lo mettevo a tacere con una bottiglia di whisky o con una dose di droga ben tagliata. In passato era più difficile… Ho passato giorni interi a contorcermi nella polvere, per cercare inutilmente di liberarmi di questa consapevolezza, di questo fardello mostruoso che mi opprime e che non mi lascia vivere. Oggi basta uscire di casa e comprare quello che serve, poi resta solo il buio, il vuoto nella mente. In quei momenti non ero più nessuno: era come se smettessi di esistere, fluttuando in un caos di luci e di colori che mi avvolgeva come una coperta. Il caos è un posto caldo e rassicurante, il posto migliore per andare in vacanza da se stessi.
Molte volte nell’agonia del ricordo mi sono domandato se ci sia un motivo dietro la mia diversità: forse ho un compito da svolgere nel mondo, ma se davvero ce l’ho nessuno si è mai preso il disturbo di dirmi quale sia. Mi piacerebbe dire che l’ho dimenticato, ma per me quel verbo non esiste.
Qualche volta, quando ancora mi mescolavo alla gente comune, ho provato a fingere di essere come loro, pensando a come sarebbe stato bello lasciarsi le mie centinaia di vite alle spalle, vivendone una sola. Una sola vita, unica, concreta, definitiva; una di quelle vite che sfuma lentamente prima nel ricordo, poi nel sogno, e poi nella morte, dolce fine di tutto. Ma tutto questo a me è negato da sempre. L’esperienza che in tutti questi anni si è accumulata dentro di me non mi permette più di assaporare niente. Il gusto dell’incertezza, il sapore dell’emozione, il fremito del dubbio… Tutto è già successo almeno una volta, ma di solito più di una volta. Raramente mi è accaduto qualcosa di totalmente nuovo e quei momenti magici e preziosi erano le gocce d’acqua che dissetavano il mio corpo emotivamente mummificato. Qualche volta ho provato anche ad uccidermi; devo averci provato qualche decina di volte ormai, preso dalla noia mortale dell’esistenza, ma non è servito a nulla. Ho continuato a passare da una vita all’altra senza potermi mai fermare un attimo…
Moltissimo tempo fa, quando tutto questo era appena all’inizio, tra una vita e l’altra passava un po’ di tempo, se di tempo si può parlare quando non si esiste in senso fisico ma solo come coscienza immateriale sospesa nel vuoto del caos. Avevo il tempo di assaporare il gusto della morte, di illudermi che la mia fine fosse finalmente giunta dopo secoli di esilio nel mondo. Ultimamente invece, non facevo neppure in tempo a chiudere i miei occhi di vecchio o di malato che subito mi risvegliavo urlante, nudo ed infreddolito tra le mani guantate di un chirurgo. E tutto ricominciava daccapo: nuovo gettone, nuova vita.
Ho tirato avanti tra le vite come un forzato: sono stato molti uomini, alcuni anonimi, altri famosi. Sono stato anche alcune donne: era un diversivo piacevole all’inizio, ma sfortunatamente ci si abitua presto ed il tedio ricomincia. Sono stato bianco, nero, asiatico, indiano d’America; ho visto gli orrori delle guerre ed il rifiorire delle civiltà. Ma anche le guerre alla fine sono tutte uguali e sembrano un vecchio film in bianco e nero. E la cosa più triste è accorgersi che gli uomini non imparano mai niente dal passato. Sbagliano, si accorgono di aver sbagliato, si pentono e poi sbagliano di nuovo. Credo che questa sia una costante universale…
Ieri però mi è successo qualcosa di veramente speciale, qual-cosa che ha riacceso la speranza nel mio cuore: dopo un tempo incommensurabile di nulla assoluto, una luce. Ho dato due milioni di dollari a degli uomini vestiti come dei manichini, che mi hanno guardato come se fossi completamente pazzo per tutto il tempo che ho trascorso con loro.
“Lei è sano, signor Smith.” mi hanno detto. “Ha davanti a se almeno altri vent’anni. E’ sicuro di volersi sottoporre al trattamento?”
Io ho firmato il mio ultimo assegno senza dire una parola e quando gliel’ho messo in mano le domande sono finite subito.
La parola magica e’ criostasi, la nuova tecnica che avrebbe messo fine al mio incubo: passare l’eternità dentro una bara di azoto liquido, né vivo né morto. Mi hanno garantito che l’attività cerebrale in criostasi profonda è minima, giusto quel tanto da poter distinguere un cervello vivo da uno morto. Niente pensieri, niente sogni, così mi hanno detto i manichini là fuori. Ma erano tutte stronzate…
Perché anche se adesso il mio corpo è surgelato, la mia mente continua a funzionare perfettamente, fregandosene di tutto. Mi sono condannato da solo ad una prigione ben peggiore di quella a cui centinaia di anni mi avevano abituato: qui dentro non posso più sfuggire a me stesso.
Io penso, io sogno, io ricordo. Per sempre.