Una fanfiction tolkieniana su “Il Ritorno del Re”
di Elisabetta Vernier
[In sottofondo: “The Steward of Gondor” – Colonna Sonora Originale di “The Return of the King” di Howard Shore]
Alla testa dell’ultimo drappello di cavalieri di Gondor, Faramir galoppava sul suo cavallo bianco, lanciato a passo di carica verso una morte certa.
– Ma se io dovessi ritornare, abbi una migliore opinione di me! – aveva detto a suo padre prima di partire, ma sul volto grifagno di Denethor, segnato dagli anni e dal lutto, aveva letto soltanto disprezzo.
Mentre i Campi di Pelennor scorrevano intorno a lui come un vecchio arazzo ingiallito dal tempo, il vento gli sferzava il viso con una forza tale da mozzargli il fiato, insinuandosi con prepotenza tra le aperture dell’elmo. Il rombo degli zoccoli faceva tremare la terra, pervadendo l’aria carica di polvere e di grida di guerra, ma Faramir non lo sentiva. Nelle sue orecchie echeggiava solamente, ancora e ancora, la crudele risposta di suo padre:
– Dipende da come ritornerai.
E l’unico genere di ritorno che avrebbe soddisfatto Denethor, figlio di Ecthelion, sarebbe stato alla testa di un’armata vittoriosa, oppure adagiato su una lettiga, raccolto senza vita dal fango di Osgiliath con una freccia nera nel cuore, supremo sacrificio per una causa senza più speranza. Suo fratello Boromir aveva già raggiunto i suoi illustri antenati, lasciandogli in eredità un ruolo troppo grande per le sue spalle: figlio cadetto della Casata dei Sovrintendenti, Faramir era nato per studiare, consigliare, amministrare.
Ma per necessità e per amore di suo fratello, aveva saputo diventare un buon soldato e un Capitano amato e rispettato dai suoi uomini, quegli stessi uomini che in quel momento cavalcavano al suo fianco in quell’impresa disperata. Quegli uomini che non lo avrebbero mai lasciato andare a morire da solo, figlio obbediente di un padre accecato dal dolore per la perdita del figlio prediletto.
– Faramir, non gettar via la tua vita in modo avventato, o per troppa amarezza – gli aveva detto il vecchio Mithrandir, per cercare di dissuaderlo dal partire. – C’è bisogno di te qui, e per ben altre cose che la guerra.
Quali potevano mai essere, queste altre cose a cui era destinato? Forse raccogliere le briciole dell’ultimo regno degli Uomini? L’ombra incombeva sulla Terra di Mezzo e le armate di Mordor già lasciavano la piana di Gorgoroth, come sciami di locuste.
Galoppando verso il suo destino, Faramir aveva il cuore gonfio di amarezza per non essere mai riuscito a essere all’altezza dell’amore di Denethor: in trentacinque anni non era riuscito a guadagnarsi altro che la sua pietà.
Tuo padre ti vuole bene, Faramir, e se ne ricorderà prima della fine… Così aveva parlato Mithrandir e se la sua proverbiale preveggenza non aveva iniziato a tradirlo proprio in quell’ora di lacrime e sangue, allora così sarebbe stato.
Faramir, Capitano di Gondor, sarebbe morto quel giorno, nell’estremo e disperato tentativo di strappare la città di Osgiliath all’esercito di Mordor, e lassù sulle bianche mura della Cittadella di Minas Tirith, sotto il tronco rinsecchito dell’Albero Bianco, suo padre avrebbe pianto per lui. Le porte di Rath Dínen si sarebbero aperte e l’ultimo discendente di Húrin, capostipite della Casata dei Sovrintendenti, avrebbe riposato per sempre all’ombra della Torre Bianca.
Chiuse gli occhi per lasciar scorrere via le lacrime che gli annebbiavano la vista, trasformando l’orizzonte davanti a lui in una linea sfumata di fuoco e fumo: li strinse forte, cercando con quel gesto di raccogliere tutto il coraggio che albergava ancora nel suo cuore, e quando li riaprì vide che c’era qualcuno, laggiù, sul campo davanti a lui.
Era una donna alta e sottile come un giunco, ma la sua espressione era dura come la lama della spada che recava in mano. Sorgeva diafana sul campo di battaglia, cinta di vesti candide come la pelle del suo viso, e lunghi capelli biondi le ammantavano le spalle, fluttuando nel vento. Forse era un miraggio, uno spettro creato dal fumo che si levava in spirali sottili dall’erba calpestata, o forse l’incarnazione di un sogno a lungo dimenticato. Mai Faramir aveva contemplato bellezza più grande.
Mentre tutt’intorno a lui il tempo pareva rallentare fin quasi a fermarsi, il giovane Capitano di Gondor si chiese perché quella creatura di sogno si trovasse lì, tra il fumo e il sangue degli Uomini: i suoi piedi leggeri erano fatti per calpestare le bianche spiagge di Tol Eressëa, o le foglie rosse della sussurrante foresta di Lòrien, dove dimoravano gli ultimi elfi dell’Antico Popolo.
La misteriosa Dama Bianca sembrava chiamarlo a sé, come dalla sponda di un mare lontano.
Faramir, non gettar via la tua vita in modo avventato, o per troppa amarezza.
Erano le stesse parole di Mithrandir, ma la voce che le sussurrava era dolce come il miele e il tono era quello di una supplica. Ascoltando la musica nascosta in quelle parole, in un battito di ciglia Faramir si ritrovò in un altro luogo e in un altro tempo. Mentre il suo cuore non smetteva di correre all’impazzata, si guardò intorno senza capire: era di nuovo dentro la Cittadella, in un giardino di erbe officinali curato da mani esperte, e il cielo sopra Minas Tirith era ancora scuro, come prima di un temporale. Ma l’armatura scintillante che indossava per l’assalto a Osgiliath era svanita, lasciando il posto a una morbida tunica e un mantello caldo, e i suoi lunghi capelli castani sembravano aver dimenticato da tempo la costrizione dell’elmo.
Sollevò lo sguardo verso le mura della città e fu allora che la vide, in piedi sul camminamento: teneva gli occhi fissi verso oriente, con espressione remota, ed era avvolta in un mantello blu come una notte d’estate, intessuto di stelle d’argento. Su di lei cadeva un raggio di sole ribelle che, bucando con prepotenza le nubi plumbee, accendeva i suoi capelli di riflessi d’oro. In un attimo di chiarezza assoluta, Faramir riconobbe il mantello di Finduilas di Amroth, l’unico ricordo tangibile che gli restava di sua madre, morta anzi tempo quando lui era solo un bambino.
– Madre … – mormorò il giovane Capitano e la Dama Bianca, richiamata dal suono della sua voce, si voltò verso di lui.
Non era Finduilas, ma il suo viso era rigato di lacrime lucenti come vetro argentato, e nei suoi occhi grigi e profondi albergava una tristezza infinita.
C’è bisogno di te qui, e per ben altre cose che la guerra.
Nel vedere tanto dolore in quel bel viso sconosciuto, il cuore di Faramir fu mosso a pietà e per un momento dimenticò le parole spietate di suo padre, dimenticò Osgiliath invasa, dimenticò l’Ombra che da Est si riversava sulla Terra di Mezzo. Desiderò soltanto di essere vicino a lei, sulle bianche mura di Minas Tirith, e di asciugare con una mano quelle lacrime. Per un attimo Faramir desiderò di vivere.
E così, quando il dardo nero lanciato contro il suo cuore generoso si conficcò nel pettorale dell’armatura, trafiggendolo, il giovane Capitano di Gondor ricadde inerme nella polvere dei Campi di Pelennor, ma non morì.
© Elisabetta Vernier per la storia – 2004
© JRR Tolkien for all the “Lord of the Rings” names and characters.
Opera amatoriale senza fini di lucro – Non si intende infrangere il copyright degli aventi diritto
Ciao Elisabetta, ho curiosato un po’ nel tuo spazio. Ero alla ricerca di estimatori di Wenham in Italia…. Anch’io scrivo …. e sto preparando qualcosa da sottoporre al nostro David…. vedremo.QUESTO NON E’ UNO SCHERZO, NE’UNA PRESA IN GIRO, tengo a precisarlo. Comumque se ti interessa, ti do la mia mail.
Grazie per la tua attenzione.
Giulia
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