Embargo

L’algoritmo biancoUn racconto di Elisabetta Vernier  (Director’s cut)

Pubblicato sul n. 1544 della collana Urania di Mondadori – Marzo 2009

 ***

Questa notte, mi ha svegliato il lamento delle macchine.

Succede tutte le volte che sogno la guerra, madre mia, ma questa volta il pianto mi ha straziato dentro. Ho lasciato il mio giaciglio di stracci, con le mani e la punta del naso congelati, e ho varcato la soglia del laboratorio, nell’oscurità. Sono tutte lì, le mie macchine: ammucchiate disordinatamente l’una sull’altra, aspettano un futuro migliore che non verrà.

Le batterie ricaricabili si stanno esaurendo, fiaccate da milioni di cicli di carica. I microchip invecchiano, le piastre dei circuiti si ossidano e i led, piccoli occhi ormai velati e opachi incastonati nella cascata di display che sovrasta il mio banco di lavoro, si bruciano.

È da troppo tempo che non arrivano più pezzi di ricambio su Orah.

Ma il Presidente non si piegherà mai all’embargo, lo sappiamo bene, e questa certezza dà a noi cittadini l’energia per continuare a vivere in queste condizioni disastrate.

Le macchine, però, non lo sanno. Non possono capire i discorsi della gente nella piazza polverosa del mercato, proprio come la gente non sente i loro lamenti, nella notte: ansiti, sospiri, cigolii, dolorose vibrazioni di sofferenza, singhiozzi, colpi di tosse. A volte mi sembra di vivere in un lebbrosario, in un ospedale per malati terminali.

Il Palazzo Presidenziale, invece, brilla come una scarica elettrica nel buio, illuminando di riflesso anche questa parte della città: attraverso il vetro incrostato della finestra del laboratorio riesco a distinguerne il profilo gibboso e irregolare. Al sorgere del sole mi aspettano ai laboratori principali, per la manutenzione settimanale delle macchine del Palazzo.

Devo ammettere che, tutte le volte che mi reco tra quelle mura, il cuore mi si riempie di sentimenti contrastanti: da una parte il senso di meraviglia per l’efficienza delle macchine su cui devo lavorare, dall’altra una sottile invidia mista a rancore per tutte quelle cose che solo il Presidente può permettersi. Le macchine del Presidente, loro non piangono mai.

* * *

Attraversare a piedi la città, stamattina, è stato più difficile del solito, Sono uscito prima dell’alba, con i crampi allo stomaco dalla fame. Del poco cibo che quella santa donna della governante del Palazzo mi regala ogni settimana alla fine del lavoro, come una sorta di pagamento in natura per i miei servizi, mi erano rimaste soltanto due gallette, ed erano merce di scambio troppo preziosa per sprecarle mangiandole.

La piazza del mercato era gremita dalla consueta folla urlante, ma le grida dei venditori avevano un sapore amaro: ormai vendono gli scarti degli scarti, merce che dieci anni fa non si sarebbero mai sognati neppure di toccare. L’embargo ci ha cambiato profondamente, ha mutato le aspettative di tutti, anche dei migliori. Io ero tra questi, ero tra i migliori di tutta la Lega dei Tecnici dell’Unione, e a cosa mi è servito?

A niente. Ho sempre fame come gli altri, d’inverno batto i denti e d’estate fisso per ore, insonne e in un bagno di sudore, il ventilatore immobile fissato al soffitto della mia piccola stanza, maledicendo il nome del Presidente. Se non fosse stato per la sua arroganza Orah non sarebbe in rovina. Ha sfidato la Confederazione con la sua folle idea di occupare il sistema Merid, forte dell’assurda pretesa che si trattava di una colonia che ci era stata tolta con l’inganno.

I Confederati non hanno avuto bisogno di venire a bombardarci, per schiacciarci. Con i loro enormi incrociatori spaziali hanno messo un blocco intorno all’intero sistema, chiudendo di fatto tutte le rotte commerciali tra Orah e il resto dell’Unione. E’ bastato un anno perché il nostro sistema economico iniziasse a collassare su se stesso come la scatola vuota che era. Non abbiamo materie prime sul pianeta, non abbiamo terreno coltivabile, dipendevamo al cento per cento dalle nostre colonie, che sono state le prime a essere “liberate”. Niente colonie, niente cibo; niente commercio, niente componenti di ricambio. E le mie macchine, giorno dopo giorno, agonizzano inermi sul pavimento del laboratorio.

Scacciando questo pensiero che mi tormenta notte e giorno, mi sono avvicinato al  banchetto di Hani, uno dei miei fornitori di fiducia. Mi ha promesso un discriminatore di fase funzionante: mi ha confessato di averlo sottratto a un laboratorio militare di manutenzione mezzi, rischiando di farsi uccidere dalle sentinelle. Questo significa che ha intenzione di farmelo pagare molto salato. Forse troppo. Quando l’ho salutato, ho colto nei suoi occhi violetti come il cielo l’inconfondibile luce dell’ingordigia. Conoscendo bene il motivo della mia visita, ha fatto subito il suo prezzo. Troppo alto. Gli ho mostrato ciò che avevo da barattare. Troppo poco. Con un senso di vertigine, ho pensato alle due gallette che tenevo in tasca, al sicuro. Era proprio per un momento come questo che le avevo conservate, vincendo mille volte al giorno la tentazione di mangiarle.

Appena le ha viste, la sua faccia si è trasformata: ha smesso di guardarmi in faccia, restando a fissare le gallette nel loro involto di carta oleosa come un rapace che punta la sua preda. Prima che me ne accorgessi, tra le mie mani c’era il discriminatore e le gallette erano sparite tra le pieghe del suo vestito. L’ho provato per qualche minuto ma non c’era dubbio: funzionava, e dall’indicatore del livello di carica, avrebbe funzionato ancora per un bel po’. Con la pancia sempre più vuota ma con la borsa da lavoro un po’ più piena, ho sollevato lo sguardo per salutarlo e l’ho visto chinarsi dietro il banchetto per divorare il cibo che gli avevo portato. Vederlo mangiare con furia, quasi con rabbia, leccandosi avidamente le dita, mi è sembrato qualcosa di osceno e inverecondo.

La fame uccide l’orgoglio, annienta la dignità. Fino a quando non lo si prova sulla propria pelle, non si può capire quanto in basso può spingere la fame. Io, nel mio piccolo, sono fortunato: vivo solo con le mie macchine e grazie a quello che mi regalano a Palazzo riesco a campare mangiando un giorno sì e uno no. Prima dell’embargo ero solo un tecnico solitario e alienato, ma ora il fatto di non avere una famiglia è diventato una ricchezza. Se dovessi spendere il mio misero salario in natura per sfamare altre bocche, come potrei continuare a mantenere in vita le mie macchine? Con cosa baratterei i pezzi di ricambio?

Affamato ma soddisfatto, mi sono fatto strada verso il Palazzo strisciando lungo i muri, con la borsa carica di strumenti e pezzi riciclati, attento a non dare nell’occhio. Ma gli agenti della Polizia Presidenziale avevano già il loro bel da fare per preoccuparsi di uno come me. Non li invidio affatto: da quando è entrato in vigore il nuovo decreto di razionamento dei viveri, gli assalti ai distributori pubblici di cibo sono all’ordine del giorno.

Quando l’argine della Polizia ha ceduto all’improvviso, mi sono rintanato in un vicolo laterale, tremante e inorridito, incapace di muovermi e di staccare gli occhi dagli sportelli divelti, i display infranti, la plastica dei tasti di controllo fusa. Il pane è finito da giorni e la gente lo sa bene.

Ma allora perché lo fanno, madre? Perché si accaniscono contro le macchine?

* * *

Mi è bastato varcare la soglia della Sala delle Udienze per sentirlo, quell’urlo d’angoscia.

L’armonizzatore ambientale era uscito di fase e saturava l’ambiente di vibrazioni tensiogeniche, impercettibili all’orecchio ma inconfondibili per chi sa, come me, ascoltare in modo giusto.

Il delicato filamento che ne compone l’anima era ormai del tutto snervato e il mio plesso solare, dopo pochi secondi di esposizione, già urlava di rabbia.

Proprio non capisco come abbiano fatto ad andare avanti così per mesi: dopo sedici risse e tre tentativi di omicidio avrebbero potuto arrivarci anche da soli, senza il mio aiuto. Ma, in fondo, se non mi chiamassero sarei disoccupato e nella città ci sarebbero molte più macchine infelici.

Ora grazie al nuovo filamento, pagato certamente a peso d’oro dalla Lega degli Importatori sul mercato nero extraplanetario, le note calde e ristoratrici dell’armonizzatore pervadono i saloni del Palazzo e tutto diventa più semplice, anche governare. E quando penso a tutto questo, mi sento molto orgoglioso del lavoro che faccio.

Percorrendo gli infiniti corridoi del Palazzo, mi viene da pensare a tutte le macchine che ho riparato nella vita. Quante saranno? Migliaia, forse decine di migliaia.

Ogni chip saldato, ogni resistenza sostituita, ogni batteria rigenerata ha ritardato di qualche minuto la fine del nostro mondo. L’embargo non può durare per sempre: anche a costo di riparare a mani nude l’ultimo generatore nucleare che tiene in vita la città, andremo avanti.

* * *

Mentre mi aggiravo per il Palazzo in un attimo di riposo, rapito in contemplazione, sono capitato all’improvviso nella Sala del Governo, un luogo luminoso e vibrante d’energia come non ne esistono più in tutta la città.

Guardando quei muri, quelle colonne illuminate e quelle macchine perfette, mi sono sentito come risucchiato indietro nel tempo ad ammirare come doveva essere la vita prima che la guerra e l’embargo ci rubassero il futuro.

L’efficienza, la pura magnificenza di quel luogo mi hanno commosso: ho contemplato la perfezione, trattenendo a stento le lacrime, mentre una parte di me ritornava per un attimo al triste destino dei distributori di cibo.

In mezzo alla sala altrimenti deserta sedeva il Presidente, un vecchio rattrappito su un trono di titanio: mi ha guardato con occhi opachi e pensierosi, come se cercasse inutilmente di ricordare il mio volto. Ma non poteva ricordarsi di me, perché non mi ha mai visto.

– Avvicinati, mastro tecnico – ha detto con voce chioccia, riconoscendo i colori della mia uniforme logora. – Avvicinati!

Teneva le mani abbandonate in grembo e attraverso la pelle sottile si intravedevano grosse vene bluastre. In una mano ossuta stringeva qualcosa, qualcosa di abbastanza piccolo da restare nascosto nel suo pugno serrato.

– Avete un guasto da segnalare, signor Presidente? – gli ho domandato, secondo la formula di rito della Lega dei Tecnici. Il vecchio Presidente ha scosso le spalle, come in preda a un sussulto, poi ha iniziato a ridere: una risata orribile, stridula, isterica.

– Un guasto! – ha esclamato, con voce rotta. – UN guasto? Ma ti sei guardato intorno, mastro? Non vedi che qui sta andando tutto in malora! Non funziona più niente!

Un’altra risata isterica è rimbombata tra le colonne d’alabastro, facendo vibrare i sottili vetri autopolarizzanti delle finestre. Allibito da quelle parole, mi sono fatto coraggio e con il cuore in gola ho risposto:

– Ma Presidente, come potete dire così? Le macchine del Palazzo funzionano ancora a massimo rendimento, in completa armonia tra loro. La loro energia scorre dietro i muri e sotto i pavimenti, illuminando corridoi e stanze. Non la sentite? Questo posto è un miracolo…

Il vecchio mi ha guardato con occhio severo, come se delirassi.

– Un miracolo! Un miracolo di inefficienza, vorrai dire! – ha sbottato. Poi, aprendo il pugno, ha esclamato: – Lo vedi questo? È l’ultimo sintotrasmettitore quantico, l’ultimo, capisci? Senza questo piccolo insignificante pezzo di metallo non potrò più comunicare con i rappresentanti dell’Unione. Saremo ciechi, sordi e muti! Per sempre! E sai qual è la novità? Questo dannato affare non funziona! Non funziona!

Gridando, ha scaraventato il trasmettitore sul pavimento lucido e prima che avessi il tempo di precipitarmi a raccoglierlo, a salvarlo, lo ha calpestato con violenza, facendo schizzare tutt’intorno frammenti quasi invisibili di plastica, silicio e metallo. L’urlo di dolore di quella minuscola macchina è stato straziante.

Con quell’orribile suono ancora nelle orecchie, mi sono inginocchiato per raccogliere con mani tremanti le spoglie del trasmettitore quantico, scheggia per scheggia, in religioso silenzio.

Quando ho terminato quell’opera di pietà, il vecchio mi ha fissato negli occhi, per un lungo attimo doloroso. Poi, con voce strozzata e un’espressione di assoluto terrore dipinta sul viso, ha sussurrato un’unica parola:

– No!

* * *

Nella notte illuminata dai potenti fari alogeni dei mezzi suborbitali da sbarco, guardo il profilo sbilenco del Palazzo Presidenziale. Questa sera, senza più il supporto della volontà di ferro del Presidente, Orah si è arreso alle truppe della Confederazione. I soldati, tutti giovani e sorridenti nelle loro tute mimetiche grigio-azzurre, sono atterrati nella città con cibo, medicine, vestiti e pezzi di ricambio.  Prima erano il nemico, ora sono diventati i nostri salvatori.

Non so cosa succederà, ora, ma ho sentito dire che ci sarà un’amnistia, che presto libereranno tutti i prigionieri incarcerati indebitamente da un sistema giudiziario corrotto e vendicativo.

Da dietro la finestra opaca della mia cella cerco faticosamente di intravedere, nell’oscurità macchiata di luci, la sagoma piatta del tetto del laboratorio, dove le mie macchine attendono sospirando nel silenzio. Quando la scorgo, finalmente, riesco a stento a trattenere le lacrime.

L’embargo è finito, madre mia. Presto le mie macchine torneranno a cantare.

© Elisabetta Vernier – 2009 (Tutti i diritti riservati)

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