Modding X-treme

Una fanfiction semiseria su Stargate SG-1
di Elisabetta Vernier

Jack O'NeillAnnoiato a morte da un ridicolo film di Star Wars, Jack si guardò intorno con gli occhi a mezz’asta.
Seduti sul tappeto, davanti a lui, Teal’c e Cassandra fissavano lo schermo a occhi sgranati, rapiti dalla storia idiota che entrambi avevano visto almeno dieci volte a testa.
Janet e Jonas, seduti sul piccolo divano a due posti, commentavano sottovoce le battute del film: di sicuro la dottoressa Frasier, con la sua proverbiale pazienza, stava aiutando il giovane umano alieno a cogliere le sfumature del linguaggio terrestre.
Carter, ovviamente, non c’era.
Erano ormai ben otto fine settimana di fila che il suo comandante in seconda disertava la serata fantascientifica davanti alla TV organizzata da Teal’c, e il colonnello O’Neill cominciava a perdere la pazienza.
Finché si trattava di declinare i suoi inviti a pescare, poteva ancora capirla, ma quelle serate le erano sempre piaciute: quando il loro collega Jaffa aveva proposto di organizzarne una era stata la prima ad appoggiarlo. Ma ora se ne restava murata nel laboratorio per tutto il fine settimana e non c’era verso di smuoverla.
Al telefono aveva accennato in modo vago al fatto che stava costruendo qualcosa, ma quando Jack aveva cercato di approfondire, Carter aveva tagliato corto e aveva riattaccato.
E Jack O’Neill non sopportava che qualcuno gli riattaccasse in faccia, meno che mai il suo secondo in comando. Mentre finalmente sul televisore cominciavano a scorrere i titoli di coda, Jack decise che ci avrebbe visto chiaro, in quella storia, a costo di irrompere nel laboratorio di Carter con la forza.

– Jonas? – esclamò il maggiore Carter, mostrando un frammento di naquadah. – Questo ti serve?
L’archeologo del gruppo sollevò lo sguardo dal cartiglio scolpito nella pietra che stava ripulendo con pazienza e osservò il pezzo di roccia aliena che la sua collega gli tendeva.
– No, è solo un frammento della base del manufatto. Ce ne sono a quintali qui intorno.
Il pianeta che stavano visitando era stato pesantemente bombardato dalla flotta Goa’uld, che lo aveva ridotto a una pila di detriti fumanti. Tra questi detriti c’era anche un manufatto degli Antichi, o meglio quello che ne restava: il frammento di Carter doveva essere parte di una delle piastrelle di roccia che ne decoravano la base, e quindi di nessuna utilità.
– Grazie – mormorò distrattamente il maggiore e Jonas la vide mentre faceva scomparire il frammento in una tasca dell’uniforme.
Curioso, pensò. Non credevo che il maggiore Carter collezionasse campioni di roccia.
Ma prima che avesse il tempo di formulare una domanda, l’allarme generale richiamò l’attenzione di tutti e la squadra SG-1 si preparò a levare le tende dal pianeta.

Samantha Carter Teal’c entrò nell’armeria della Cheyenne Mountain per riporre il suo bastone Jaffa. Ormai non lo usava più molto spesso: vivere insieme ai Tau’ri lo stava cambiando anche da quel punto di vista.
Ma anche se tempi in cui era il Primo di Apophis, crudele Signore del Sistema, gli sembravano lontanissimi non poteva mai abbassare la guardia. Lui era pur sempre lo Sho’fah, il traditore, e la sua testa era un trofeo prezioso sui pianeti governati dai Goa’uld.
Appoggiò il bastone sulla rastrelliera, indugiando con una mano sull’impugnatura intarsiata, ricordando le innumerevoli battaglie che aveva affrontato con quell’arma tra le dita.
All’improvviso, però, un rumore leggero lo distrasse dalle sue riflessioni.
– Ah, Teal’c! Sei tu! – esclamò la voce del maggiore Carter dal fondo della stanza.
– Maggiore Carter – disse Teal’c. – Non mi aspettavo di trovarla qui.
Il maggiore Samantha Carter si guardò intorno, leggermente imbarazzata.
– Stavo cercando alcuni zat-gun danneggiati che abbiamo riportato dall’ultimo scontro con i Jaffa di Heerur. Pensavo che li avessero sistemati qui…
– Indubbiamente – sentenziò il Jaffa.
Ricordava perfettamente quelle armi: le avevano riportate sulla Terra qualche settimana prima per riciclarne i materiali ancora in buono stato. Probabilmente il maggiore Carter ne aveva bisogno per la sua ricerca sulle fonti di energia aliene
Nessuno dei Tau’ri aveva una conoscenza più approfondita dei reattori al naquadah: la grande preparazione scientifica della sua collega gli incuteva una sorta di ammirazione reverenziale.
Se Carter fosse stata una Goa’uld e Teal’c avesse ancora creduto agli dei, non avrebbe esitato a venerarla come dea della tecnologia.
Ma quei tempi erano finiti per lui: il suo unico dio, un falso dio, era morto.
– Si trovano nel deposito delle armi speciali – disse. – Le ricordo che per aprirlo occorre l’autorizzazione del colonnello O’Neill.
– Lo so, grazie – tagliò corto il maggiore Carter e si diresse verso l’area ad accesso riservato dell’armeria, dove venivano custodite tutte le armi di tecnologia aliena.
Sentendo avvicinarsi l’ora della meditazione quotidiana, Teal’c se ne andò senza aggiungere una parola.

Jack e SamLa dottoressa Frasier, vedendo Sam passare davanti all’infermeria a passo svelto, si affacciò alla porta per chiamarla. Di solito, infatti, lei e la collega a quell’ora si godevano una breve pausa nella caffetteria di Cheyenne Mountain, la base militare sotterranea che ospitava il progetto Stargate.
– Sam? – esclamò.
Samantha si voltò e rispose senza fermarsi, con espressione di rammarico:
– Mi dispiace Janet, oggi non posso! Facciamo domani, ok?
– Ok – mormorò Janet tra sé, perché ormai Sam aveva già svoltato l’angolo del corridoio.
Jack le aveva espresso le sue perplessità sul comportamento recente di Carter e per questo Janet aveva incominciato a osservarla con maggiore attenzione. Prima che Sam sparisse dietro l’angolo, era riuscita a intravedere tra le mani della collega una grossa scatola, da cui spuntavano oggetti di diverse fogge. Forse non aveva niente a che vedere con i suoi passatempi misteriosi, ma di certo il colonnello O’Neill l’avrebbe trovata un’informazione interessante.

Il laboratorio privato del maggiore Carter era immerso nella penombra.
La Base si era ormai quasi svuotata per il fine settimana e Samantha si godeva finalmente un po’ di tranquillità e di silenzio. Quelle erano le condizioni in cui riusciva sempre a dare il meglio di sé e non voleva perdere neppure un minuto. Quella notte, o forse il giorno dopo, avrebbe terminato il suo progetto. Ci aveva lavorato per un sacco di tempo e voleva che fosse tutto perfetto.
Il colonnello O’Neill sarebbe rimasto a bocca aperta.

Jack O’Neill fissava il soffitto della camera da letto, rigato dai raggi solari che penetravano attraverso le fenditure delle tapparelle. Era sicuramente una domenica mattina fantastica, là fuori, il giorno perfetto per andare a pesca.
La sera prima era stato a casa di Teal’c e si era sorbito l’ultimo film targato Star Trek: aveva scoperto che l’alieno con le orecchie a punta non c’era più, ma in compenso c’era un capitano calvo con la testa a uovo che non faceva altro che aggiustarsi la giacca dell’uniforme.
Nemmeno Star Trek era più quello di una volta.
Non c’era da stupirsi, quindi, se Carter non fosse venuta nemmeno quella sera. Jack detestava ammetterlo, ma senza Carter le sue battutine pungenti non gli davano la stessa soddisfazione.
Si mise a sedere sul bordo del letto e si passò una mano nei corti capelli grigio ferro, sospirando rumorosamente. Doveva trovare un modo per riavere il suo secondo ufficiale.
Ci deve pur essere un modo per stanarla, pensò, irritato.
In fin dei conti, era pur sempre un suo superiore.
E quella mattina, decise, le avrebbe ordinato di accompagnarlo al suo capanno di pesca.

Quella notte non aveva chiuso occhio: l’ansia e l’emozione di essere così vicina alla meta le avevano pompato tanta adrenalina nel sangue che Sam sarebbe riuscita ad andare avanti tre giorni di fila senza chiudere occhio.
Ma non sarebbe stato necessario: ormai aveva finito.
Dimenticando per un attimo la sua creazione, andò a lavarsi la faccia alla toilette delle donne. Guardandosi allo specchio, si accorse di avere un colorito cadaverico e gli occhi arrossati: se il colonnello O’Neill l’avesse vista in quello stato, di certo le avrebbe ordinato di prendersi una settimana di ferie.
Sono proprio fuori di testa, si disse a mezza voce. Ora sento i commenti di O’Neill anche quando non c’è…
Forse un po’ di riposo le avrebbe fatto bene davvero.

– Che diavolo sarebbe quello? – esclamò Jack O’Neill, in tono incredulo.
Carter aveva appena varcato la soglia del laboratorio e lo guardava con un’espressione mista di irritazione e di scusa.
Jack aveva approfittato della momentanea assenza della collega per scivolare, inosservato, nel suo laboratorio ma la vista del manufatto che troneggiava sul tavolo lo aveva colto totalmente impreparato, lasciandolo senza parole in mezzo alla stanza.
– Allora? Ti dispiace spiegarmi cos’è quell’affare? – la incalzò, accorgendosi della sua reticenza.
Carter si avvicinò al tavolo, cercando inutilmente di frapporsi tra la sua creazione e il suo superiore.
– Niente, signore – disse.
– “Niente” un accidenti, Carter! – sbottò Jack. Anche se non era un esperto di tecnologia sapeva riconoscere un “niente” da uno strano manufatto luminoso dall’aspetto decisamente alieno. – Ti ho chiesto cos’è quell’affare e voglio una risposta chiara. E la voglio ora.
Il suo secondo in comando tergiversava, mordicchiandosi il labbro inferiore.
– È solo un piccolo esperimento, colonnello. Ma e’ innocuo…
– Dannazione, Carter! A cosa serve?! – sbottò O’Neill, al limite della pazienza. – Vuoi dirmelo o devo iniziare a schiacciare tutti i pulsanti a caso per vedere cosa succede?
Si avvicinò con fare minaccioso al tavolo e Carter indietreggiò fino a che si trovò con la schiena contro il metallo. Jack la guardò dritto negli occhi blu, aggrottando le sopracciglia, e Carter distolse lo sguardo, arrossendo leggermente.
– Signore, è un… insomma… è solo un computer…
– Sì, certo. E io sono il Primo di Apophis!
– Non sto scherzando, colonnello – ribatté Carter, con maggiore convinzione. – E’ solo un Octium a quattro gigahertz, uno di quelli che vendono al Centro Commerciale, in città.
– E perché è illuminato come una specie di Stargate da discoteca?
– Beh, l’ho modificato un po’… le piace?
Jack sollevò un sopracciglio, sorpreso.
– Mi piace? Quella cosa? Non lo so… – disse, facendo lentamente il giro del tavolo per osservare il manufatto da tutti gli angoli. – È… colorato.
– Colorato? Tutto qui? – esclamò Carter, quasi scandalizzata, indicando un pannello trasparente che lasciava intravedere senza pudore le interiora luminose del computer. – Ho inserito un sistema di raffreddamento utilizzato per gli zat-gun, che mantiene il processore a –20 gradi centigradi al massimo dell’overclock! L’alimentatore è un piccolo reattore al naquadria stabilizzato per produrre tre kilowatt di energia. Il case è schermato dalle radiazioni elettromagnetiche da un sottile rivestimento di naquadah, lo stesso materiale di cui è composto lo Stargate…
– Carter? Si è acceso – mormorò Jack, cercando di interrompere quel torrente di parole per lui incomprensibili. Nel suo ridotto vocabolario scientifico, il parente più prossimo dell’overclock era un orologio a pendolo gigante.
– Sono i circuiti intelligenti di illuminazione. Per costruirli ho utilizzato una tecnologia presa in prestito dai computer degli Asgard…
– Quelli con tutte le pietrine colorate che si muovono su e giù?
– Già, quelli – assentì Carter.
– E a che servono?
– Sono sensibili al rumore. Quando il rumore supera una certa soglia, si accendono…
– Sì, ma a cosa servono? – ribatté O’Neill. Quella conversazione stava diventando ridicola.
– In particolare? A niente. Sono belli da vedere. Servono a fare un po’ di scena, ecco tutto.
– Un po’ di scena? – sbottò. – Mi vuoi far credere che sei rimasta qui sotto, per otto fine settimana di fila, ad agghindare un computer come un albero di natale solo per fare un po’ di scena?
– Ehm… sissignore – rispose Carter, leggermente imbarazzata.
– Carter? – disse Jack, accigliato.
– Signore? – rispose il maggiore, facendosi piccola piccola sotto il suo sguardo.
– Hai proprio bisogno di una vacanza – sentenziò.
Carter sollevò gli occhi stanchi e arrossati.
– Forse ha ragione, signore.
– Fai i bagagli, Carter: si va a pescare. E’ un ordine! – esclamò, e incurante delle deboli proteste della sua collega, la trascinò quasi di peso fuori dal laboratorio.

Nella semi-oscurità del laboratorio del maggiore Carter, nelle profondità della Cheyenne Mountain, il computer modificato si illuminò di luce azzurrina, cominciando a vibrare.
Gli strumenti ancora collegati a esso schizzarono fuori scala per un attimo, come impazziti.
Poi le molecole del tavolo iniziarono a perdere coesione e la superficie metallica sotto il computer si trasformò, con uno sbuffo, in una pozza di liquido iridescente.
Il case luminoso iniziò lentamente ad affondare nel liquido azzurro, quindi in un lampo svanì, lasciandosi indietro solo qualche filo tranciato di netto, un tavolo annerito e un leggero odore di aria ionizzata.